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Lo scorso 5 maggio 2023, il Ministro della Giustizia, On. Carlo Nordio, ha nominato il prof. avv. Oliviero Mazza componente della Commissione di studio per la riforma del processo penale.

Pubblicato il nuovo libro del prof. avv. Oliviero Mazza, si riporta di seguito il testo della prefazione:


La parabola del codice di procedura penale è racchiusa in questi numeri: 30 anni di vigenza, 1.352 interventi di modifica, di media 45 all’anno, quasi 4 ogni mese, 1 alla settimana.

La logica dei numeri è impietosa nel descrivere fedelmente un interessante caso clinico contraddistinto da precoce deperibilità ed elevata fluidità delle previsioni di legge.

Trent’anni dopo, del testo entrato in vigore il 24 ottobre 1989 ri­mane ben poco, smantellato da un numero iperbolico di interventi modificativi, ben 1.352 considerando novelle e declaratorie d’illegit­timità. Si va dai primi avvisi di rettifica pubblicati in G.U. 13 dicem­bre 1988 n. 291, fino alla più recente l. 28 febbraio 2020, n. 7 che ha convertito, con modificazioni, il d.l. 30 dicembre 2019, n. 161, recante modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni. Senza dimenticare che all’orizzonte si staglia già la sinistra sagoma della “riforma Bonafede”. Nel Consiglio dei Ministri del 13 febbraio 2020, il Governo ha approvato un disegno di legge recante “Deleghe al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti d’appello”. Una nuova legge delega, come se tutto dovesse ritornare alla casella iniziale della stagione 1987-1988 in un eterno “gioco dell’oca”.

La riforma è rimasta sempre allo stato di work in progress, esposta alle temperie culturali e sociali del Paese. Ogni fatto di cronaca di una certa gravità, ogni emergenza criminale, vera o presunta, ogni pulsione dell’opinione pubblica, ogni mutamento politico si sono regolarmente riflessi sulla disciplina del processo penale, come se i valori costituzionali ed europei ai quali si era ispirato il primo codice della Repubblica fossero flessibili e adattabili ai nuovi scenari.

Non basta, quindi, la presa d’atto che un sistema normativo com­plesso necessita di stabilità per funzionare o anche solo per dimostrare la sua funzionalità e che nessun codice avrebbe potuto reggere l’urto di riforme con cadenza (di media) settimanale.

Le dimensioni abnormi del fenomeno non ne spiegano le cause.

Per comprendere il caso clinico del codice di procedura penale occorre spingere più a fondo le sonde introspettive.

Non è semplicemente imploso il sistema accusatorio vagheggiato nella stagione della grande riforma, non si è assistito solo alla sistematica destrutturazione del modello originario da parte di chi culturalmente non ha mai accettato il cambiamento. Nel corso degli anni si è trasformata l’idea stessa del processo penale, da strumento più o meno perfettibile di accertamento a potente mezzo di controllo sociale, di prevenzione e di repressione, gestito a piacimento dalla magistratura sotto la spinta emotiva di tensioni giustizialiste alimentate da esasperazioni mediatiche.

Trasformazioni così profonde non possono compiersi solo attraverso alluvionali riforme o cicliche declaratorie d’illegittimità costituzionale, richiedono necessariamente una diversa allocazione dei poteri, l’abbandono della supremazia della legge in favore della prassi.

La procedura penale è oggi materia non più regolata dalle forme legislative, la metamorfosi ha segnato l’abbandono del concetto di codice in favore di un diritto affidato alla clinica giurisprudenziale che sfugge a ogni regola di prevedibilità, diritto vivente e cangiante più adatto alla realizzazione dell’ideologia politica del processo di scopo. Diritti e garanzie, con le loro certezze, vengono sacrificati sull’altare dell’efficienza repressiva di un sistema penale che inverte le logiche liberal-democratiche: esigenze di difesa sociale impongono catture pressoché automatiche per imputati presunti colpevoli, salvo poi lasciare spazio a indulgenze e premialità in fase e­secutiva, soprattutto in cambio di atteggiamenti remissivi e collaborativi; l’allarme destato dalla gravità del reato impone un doppio bi­nario che sovverte ogni paradigma garantista e predica particolare parsimonia nella concessione di facoltà difensive dinanzi alle accuse più gravi, mentre appare addirittura pletorico nei casi ordinari.

A trent’anni di distanza la crisi è profonda ed è forse da considerarsi irreversibile nella presa d’atto che il crudo illiberalismo del nuovo secolo riscuote sempre nuovi consensi nella società del populismo giudiziario.

Riordinare e rivisitare alcuni recenti studi su questo complesso caso clinico è un po’ come cercare di raccogliere le idee per trovare una prospettiva che vada oltre la semplice denuncia. Tempi sospesi, in cui un’emergenza epidemiologica senza precedenti ci costrin­ge a sperimentare inedite limitazioni giustificate dal governo di salute pubblica, favoriscono la riflessione.


Milano-Gardone Riviera, marzo 2020



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